Il brano che seguirà è uscito qualche settimana fa su Internazionale, lo ha scritto Ihab Hashem, un giornalista giordano-palestinese che vive in Italia e dirige numerose riviste in lingua araba.
Da quando si è cominciato ad abusarne, la parola “integrazione” suscita in me un senso di ridicolo e di rifiuto. Mi sembra che ci si riferisca agli stranieri come a persone ribelli, fanatiche o poco intelligenti. E’ considerato da integrare tutto quello che si allontana dalle abitudini e dalle tipicità italiane. Non basta lavorare nei campi, curare gli anziani o spaccarsi la schiena trasportando sabbia: bisogna anche conoscere la letteratura e la costituzione.
Lavorare come infermiera, operaio, medico, ingegnere o imprenditore non basta a ottenere il rispetto e l’apprezzamento della collettività se non si beve vino e non si mangia la pasta. La donna che indossa l’hijab non è considerata integrata, così come il commerciante che, pur impiegando manodopera italiana e lavorando 16 ore al giorno, non vende l’alcol. Tuttavia, non si criticano i cittadini del nord Italia che non parlano italiano e che ricevono aiuti dallo stato per il bilinguismo e per tutelare le loro usanze. Non si richiede l’integrazione sociale ai giovani che non rispettano deboli e anziani, ai teppisti e ai tifosi violenti. Il termine “integrazione” è un’arma brandita contro gli stranieri, la loro cultura e il loro stile di vita. Ha perso il suo vero significato e la sua accezione positiva. Sarebbe meglio cominciare a parlare di uguaglianza, per indicare cittadini uguali nei diritti e doveri, senza nulla togliere alle particolarità di ognuno.
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