Per legge superiore.
Roberto Doni è un sostituto
procuratore del tribunale di Milano, è un uomo preciso, meticoloso, attento, un
uomo noioso, abitudinario. Lavora in quel grande tribunale, in quell'enorme
edificio tenuto in piedi dai chiodi.
Il suo lavoro consiste nel
rivedere le cause per le quali si è richiesto l’appello, è un lavoro minuzioso
il suo, nel quale si deve prestare molta attenzione ai dettagli, ai
particolari, alle prove. “Eccezioni
sempre, errori mai” è il suo motto.

“Da lontano sembravano solo imperfezioni o macchie naturali delle
lastre: e invece erano chiodi, grossi chiodi a espansione in metallo: un modo
per tenere saldo il marmo, visto che la malta originale stava per cedere e
l’intero edificio era a rischio”.
Tra un fascicolo e l’altro
continua ad aggiornare un file nel suo computer, senza un motivo preciso, più
che altro per un abitudine, una sorta di scaramanzia, il file si chiama “Testamento”. Oltre alle disposizioni
più materiali, Roberto annota quella che è la sua idea di giustizia:
“Il mio credo è molto semplice. Credo ci sia una luce. Una fiamma che è
la Giustizia e che dobbiamo proteggere con le mani dal vento. (…) C’è una luce
fuori di noi, in un posto spesso remoto ma sempre accessibile, e si chiama
Giustizia. Definirla in astratto non si può: dobbiamo limitarci alla sua
definizione locale, e cioè all’obbedienza delle leggi che ci sono state
consegnate.”
Una mattina riceve una mail da
una giornalista freelance che lo prega di rivedere un crimine commesso da un
muratore tunisino, crimine che ha destato l’attenzione dell’opinione pubblica;
crimine non commesso da quel ragazzo, dice la giornalista.
Sulle prime Doni non presta
importanza alla richiesta della ragazza ma poi si lascia trascinare in questa
indagine che presto lo porta a mettere in discussione, oltre alla sua carriera,
la stessa idea di Giustizia che ha sempre avuto.
L’iter processuale ha portato ad
una condanna, quello che ha appreso nella piccola e breve indagine che ha
condotto racconta tutta un’altra storia, ma la sua non è un’indagine regolare,
non è lui che ha il compito di indagare, lui deve solo valutare i fatti e per
di più lui deve vestire il ruolo della pubblica accusa.
“Credo che la legge sia la sola approssimazione della Giustizia che
abbiamo. Riconosco la fallibilità dei legislatori, dico solo che se ci
abbandoniamo alla ricerca della giustizia pura e semplice finiamo nel caos. E
qualunque ordine è meglio del caos. (…) la legge è diversa dalla giustizia in
ogni caso. La legge non è una luce, è l’aria di una città: inquinata, a volte
irrespirabile, ma necessaria per vivere”.
Così il dubbio cresce, aumenta,
perché mettere in dubbio il futuro, il benessere della mia famiglia per uno
sconosciuto, solo per un ideale.
La risposta come spesso accade è
sempre sotto ai nostri occhi.
Fiat iustitia ne pereat mundus c’è scritto in una facciata laterale
del Palazzo di giustizia di Milano.
Sia fatta giustizia affinchè non muoia il mondo.
Peccato che la frase nasconda un
errore, la frase originale recitava Fiat
iustitia et pereat mundus.
Sia fatta giustizia, e il mondo muoia pure. Sia fatta giustizia, qualunque
cosa accada.
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