lunedì 9 aprile 2012

Letture/22

Piccola rubrica di letteratura, senza pretese.

Per legge superiore.

Roberto Doni è un sostituto procuratore del tribunale di Milano, è un uomo preciso, meticoloso, attento, un uomo noioso, abitudinario. Lavora in quel grande tribunale, in quell'enorme edificio tenuto in piedi dai chiodi. 

Da lontano sembravano solo imperfezioni o macchie naturali delle lastre: e invece erano chiodi, grossi chiodi a espansione in metallo: un modo per tenere saldo il marmo, visto che la malta originale stava per cedere e l’intero edificio era a rischio”.

Il suo lavoro consiste nel rivedere le cause per le quali si è richiesto l’appello, è un lavoro minuzioso il suo, nel quale si deve prestare molta attenzione ai dettagli, ai particolari, alle prove. “Eccezioni sempre, errori mai” è il suo motto.

Tra un fascicolo e l’altro continua ad aggiornare un file nel suo computer, senza un motivo preciso, più che altro per un abitudine, una sorta di scaramanzia, il file si chiama “Testamento”. Oltre alle disposizioni più materiali, Roberto annota quella che è la sua idea di giustizia:

“Il mio credo è molto semplice. Credo ci sia una luce. Una fiamma che è la Giustizia e che dobbiamo proteggere con le mani dal vento. (…) C’è una luce fuori di noi, in un posto spesso remoto ma sempre accessibile, e si chiama Giustizia. Definirla in astratto non si può: dobbiamo limitarci alla sua definizione locale, e cioè all’obbedienza delle leggi che ci sono state consegnate.”

Una mattina riceve una mail da una giornalista freelance che lo prega di rivedere un crimine commesso da un muratore tunisino, crimine che ha destato l’attenzione dell’opinione pubblica; crimine non commesso da quel ragazzo, dice la giornalista.
Sulle prime Doni non presta importanza alla richiesta della ragazza ma poi si lascia trascinare in questa indagine che presto lo porta a mettere in discussione, oltre alla sua carriera, la stessa idea di Giustizia che ha sempre avuto.
L’iter processuale ha portato ad una condanna, quello che ha appreso nella piccola e breve indagine che ha condotto racconta tutta un’altra storia, ma la sua non è un’indagine regolare, non è lui che ha il compito di indagare, lui deve solo valutare i fatti e per di più lui deve vestire il ruolo della pubblica accusa.

“Credo che la legge sia la sola approssimazione della Giustizia che abbiamo. Riconosco la fallibilità dei legislatori, dico solo che se ci abbandoniamo alla ricerca della giustizia pura e semplice finiamo nel caos. E qualunque ordine è meglio del caos. (…) la legge è diversa dalla giustizia in ogni caso. La legge non è una luce, è l’aria di una città: inquinata, a volte irrespirabile, ma necessaria per vivere”.

Così il dubbio cresce, aumenta, perché mettere in dubbio il futuro, il benessere della mia famiglia per uno sconosciuto, solo per un ideale.

La risposta come spesso accade è sempre sotto ai nostri occhi.

Fiat iustitia ne pereat mundus c’è scritto in una facciata laterale del Palazzo di giustizia di Milano.
Sia fatta giustizia affinchè non muoia il mondo.

Peccato che la frase nasconda un errore, la frase originale recitava Fiat iustitia et pereat mundus.
Sia fatta giustizia, e il mondo muoia pure. Sia fatta giustizia, qualunque cosa accada.

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