martedì 19 ottobre 2010

Dei delitti e delle pene

Non mi vorrei dilungare troppo sull'argomento, visto che come sempre in questi casi, si tende a sovraesporre gli avvenimenti in maniera fin troppo esaustiva. 

Quello che mi premeva fare in questa situazione era solo di ricordare alcune piccole sfumature, se così si possono definire, di una storia di cronaca che sta diventando farsa, anche se mi auguro di sbagliarmi.

La storia: l'8 ottobre scorso (attenzione alle tempistiche, oggi è il 19, quindi 11 giorni fa) Alessio Burtone, ragazzotto romano, colpisce al volto con un pugno (lui ex pugile) Maricica Hahainu, infermiera trentaduenne, sposata, con una figlia, nella stazione della metropolitana Anagnina di Roma.
La donna finisce in coma e a causa delle lesioni cerebrali muore pochi giorni dopo.

Di lì a seguire cominciavano le inevitabili considerazioni sulle cause dell'avvenuto, sulla sicurezza e sul rapporto tra le diverse comunità (per usare una terminologia molto raffinata).
L'aggressore, qualche giorno dopo, scrisse persino una lettera di scuse alla famiglia della vittima che Massimo Gramellini ha ripreso in maniera egregia nella sua rubrica:
Il ragazzo romano che con un cazzotto ha mandato in coma un’infermiera romena sotto l’occhio delle telecamere sarà sicuramente un bravo figliolo, solo un po’ nervoso e suscettibile: capita, di questi tempi.


E la lettera che ha indirizzato alla vittima - senza più darle dell’attaccabrighe, ma chiedendole «umilmente scusa» e chiamandola per cognome e nome, come nei certificati penali - sarà sicuramente farina del suo sacco e non dell’avvocato che cerca di evitargli il carcere. La cultura in cui siamo cresciuti è costellata di pecorelle smarrite, figlioli prodighi, simpatici manigoldi che fatta la marachella si nascondono dietro le gonne della mamma singhiozzando i loro «chiedo scusa, non lo farò più». Siamo un popolo d’impuniti, per il quale il lieto fine giustifica i mezzi.
Eppure certi ravvedimenti provvidenziali si lasciano dietro una strana scia. Per dire: secondo i carabinieri, il ragazzo aveva già dato prova in passato delle sue arti pugilistiche, colpendo un passante che si era arrabbiato con lui, dopo che il nostro, a cavallo di uno scooter, gli aveva quasi arrotato il cagnolino. Chissà se, sbollita la tensione, il boxeur si era premurato di mandare una lettera di scuse anche al passante. E al cagnolino. Di sicuro, la prossima volta che mi troverò coinvolto in una disfida isterica, resisterò alla tentazione di reagire, ricordandomi che la persona che mi sta davanti freme dalla voglia di venirmi a trovare in ospedale con un mazzo di scuse.

Quello che mi chiedo io è probabilmente quello che tutti forse si sono chiesti, ma che per pudore non si usa ammettere, d'altronde siamo fatti così.

Mi chiedo se a parti invertite - un romeno prende a pugni un'infermiera italiana, che dopo essere stata in coma muore - ecco, mi chiedo se il giorno dopo, non dieci giorni dopo, il giorno dopo non ci sarebbero già stati una fila di pullman pronti a sfollare qualche campo rom per rispedirli alla frontiera, con la solita motivazione di "ordine pubblico".

Mi chiedo inoltre se siamo tanto ottusi, assuefatti dai molti mezzi d'informazione che ci arrivano per non indignarsi di fronte alle proteste, i fischi e alle urla degli amici dell'aggressore, quando i carabinieri lo hanno prelevato per portarlo in carcere per la custodia cautelare. Mi riferisco a frasi del tipo "Alessio libero", "Alessio uno di noi", "i romeni qui comandano e sono prepotenti".


Sia chiaro, in ogni comunità esistono le mele marce (tanto per continuare con le frasi fatte) ed esistono nella comunità romena come in quella italiana, ma usare sempre il solito pretesto dello straniero cattivo per giustificare atti inconsulti di violenza è la peggiore delle scappatoie.

Ed è bene sottolineare che in questo caso non è necessaria una condanna esemplare, basterebbe applicare le leggi in vigore per assicurare alla giustizia questa persona che in ogni caso ne ha ucciso un'altra.
Perchè in fondo è di questo che si tratta.

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